Ingabbiato nel compito di dover realizzare uno spettacolo su M. Eckhart, si rende conto della difficoltà dell'operazione quando oramai è stato accettato l'incarico. La ricerca dell'interiorità secondo il mistico domenicano del XIV secolo deve essere perseguita nella dissoluzione dell'egoismo cercando la solitudine interiore, distaccandosi dalla volontà, dalla memoria, dai sensi e dal giudizio. Dapprima adottando un atteggiamento intellettuale e analitico, Chenevier riprende i fondamenti della mistica di Eckhart tentando innumerevoli volte di tradurne almeno uno in uno spettacolo di danza. Ma nell'autocensura dei tentativi l'analisi si perde nella vana ricerca di un'idea drammaturgica che sembra continuamente fallire. Il malessere e le riflessioni vengono così condivisi con il pubblico in modo leggero e ironico in una parziale frattura del codice. Il ragionamento, esausto, lo porta infine a chiedersi se non fosse sbagliato il processo in sé. La chiave di volta potrebbe essere domandarsi quale sia il senso di un lavoro su Eckhart oggi, e se l'accusa di eresia che egli subì sette secoli fa non palesi un conflitto atavico tra potere ed interiorità.
Andrea Porcheddu - Gli stati generali – 28/05/2017
“[...] Chenevier è un raffinato e sornione flaneur, dal profumo internazionale, che attraversa mondi osservandoli con gustosa empatia e intelligenza. [...] il danzatore è bravissimo a tenere vivissima l’attenzione, aprendo a piani emotivi e concettuali sempre altri. Così, lo spettacolo diventa presto una amara denuncia della condizione umana, una verifica concreta e attualissima delle eretiche visioni del mistico medioevale: un riportare tutto a sé, ma dando suggerimenti e respiri ampi, coinvolgenti, a tratti drammatici. Marco Chenevier, nel suo stare solo in scena, rompe il meccanismo dello spettacolo, svela il baratro che c’è dietro il gioco. E noi – pesanti, noiosi, faticosi come siamo – ridendo divertiti, ci troviamo sospesi nel vuoto della vita.”
Silvia Guidi - L'Osservatore Romano – 27/05/2017
“[...] Chenevier decostruisce e ricuce, taglia e riassembla, mostra con ostentata umiltà la brutta copia del testo, cavaliere senza macchia — ma con tante paure — del teatro contemporaneo. Ma all’improvviso, quando la guardia è abbassata, inanella una serie di perle eckhartiane di bellezza vertiginosa, una sequenza di colpi potenti e precisi sferrati con forza e grazia [...] Il pubblico è tramortito dalla sorpresa — ma perfettamente in grado di applaudire (a lungo) — mentre le parole radicalmente, scandalosamente inattuali del mistico tedesco galleggiano ancora nell’aria.”
Giulia Sanzone - Repubblica Roma – 26/05/2017
“[...] Nel tentativo costante di abbracciare qualcosa di puro che continuamente sfugge, Chenevier attraversa un percorso profondo e complesso con gentilezza, conducendoci, a piedi scalzi, al confine tra danza e teatro.”
Igor Vazzaz – Lo sguardo di Arlecchino – aprile 2019
“[…] Alle prese con nientepopodimeno che Meister Eckhart, mistico medievale, “fissa” che fu (in quanto figura ineludibile della teologia negativa) di Carmelo Bene, Chenevier, solo in scena per una volta in più, tira fuori un lavoro d’abbacinante stratificazione, giocando coi registri e dimostrando una grandiosa capacità di celiare sulla verità dell’enunciazione scenica (quello che si dice e si fa, quando si è là sopra), senza mai venir meno a una verità espressiva. Parla, canta, recita, mette a nudo il fatto della scena, prendendo per mano il pubblico e restituendogli una piccola meraviglia che fa ridere, riflettere, incazzare, tornare a casa certi di non aver sprecato tempo.”